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Da una ricerca compiuta nelle diverse comunità rurali del Basso Veronese, del Monte Baldo e dei Monti Lessini, zone dunque ‘fuori’ da quelle che sono divenute le principali vie di comunicazione mediopadane (estranee alle moderne tendenze urbanistiche che sempre più vanno ad intaccare la Cultura e la religiosità popolari dell’Agro Veronese e non solo), sono emersi interessanti risultati. Nel linguaggio sacro, che è cosa ben diversa da quello religioso o rituale, i messaggi veicolati sono l’espressione dell’individualità di un gruppo umano, mentre la lingua è un fatto che riguarda la collettività . Occorre dunque considerarlo come un vero e proprio valore, un fattore di coesione comunitaria nell’ambito del sacro ossia del magico-religioso-etico. Dalla ricerca condotta da Giorgio Mario Mancini emergono tre settori di ‘sacertà ’: il gesto, la parola e il disegno.
Sono antichissimi comportamenti di cui si è persa la conoscenza del significato intrinseco, ma che tutt’oggi si ripetono instancabilmente in modo quasi istintivo. E’ il gesto del contadino di accarezzare i fili d’erba prima di sferrare il definitivo colpo del taglio, che sembra servisse per accomodare l’erba, ma il suo vero significato va cercato in credenze molto più remote, come quella, appunto, animistica di spiriti che abitano i campi e che devono dunque essere avvertiti del taglio. Lo stesso gioco dello s-cianco, secondo cui dopo esser stato in grado di sollevare un bastoncino da terra occorreva colpirlo in aria (una sorta di antenato del baseball), dopodiché si doveva segnare una crocetta per terra, questa segnava un contatto con la terra di un oggetto che le era stato strappato. Il valore stesso del doppio segno della croce che i contadini veneti si facevano al mattino prima con la formula in latino e poi con quella veneta, sanciva un vero e proprio patto con il campo in cui si andava a lavorare. Molti di questi gesti-rituali sono pervenuti a noi sottoforma di residui verbali che mantengono tutt’ora il loro senso originario. Segnarse cô’la man sanca (la sinistra) significa decidere di non interessarsi più riguardo qualcosa, compiere il gesto di ‘abiura’; spuà r con il senso di rifiutare, disprezzare qualcosa; tocar fèro cioè torcere il gioco alla fortuna; baxarse le man (drite e rôerse) essere contenti per la propria buona sorte; piandhà r el morto (fingersi povero); ciamar cesa (arrendersi). Qui la sacertà prende ancora nuove forme e diviene ancora più rappresentativa del mondo agrario di cui stiamo discutendo. Rimane vivo un forte senso magico-etico nel detto cavar (o catar) la bala d’oro, essere fortunati in qualche affare e ancora meglio, conoscere qualche ricco signore ed entrare nelle sue grazie. Un altro interessante modo di dire è far fraja, o frajar che starebbe ad indicare il divertimento sfrenato, forse derivante dal costume delle compagnie di ‘fratres’ che facevano convivi, inizialmente con intenti sacri, che poi però presero un senso più profano. O forse dobbiamo risalire all’etimologia di una parola tedesca ‘freiheit’ e cioè libertà . Un altro dilemma per quel che riguarda la frase be(v)ar le belesse, il cui significato risiede forse nell’antica usanza di bere dal bicchiere dell’amico per condividerne le virtù che poi ha preso un ironico taglio igienistico, soprattutto nel nostro secolo. Celeberrime le espressioni tutt’ora usate anche nel linguaggio corrente: ‘verghe la luna par traerso (essere lunatico, predisposto a frequenti sbalzi di umore), vivar in t’l mondo de la luna (non partecipare al mondo che ci circonda); i concetti di luna dura e luna tènara, la prima delle due viene ancora seguita per la semina, o il taglio delle piante. E ancora contar kôela de l’orso o (più antico) de l’orco per dire di uno che racconta frottole; sigar co’fa n’anguana poi tradotto con ‘aquila’, per designare quegli spiriti femminei dei monti, sulle cui vette si sentiva riecheggiare le stridule urla a evocare epiche atmosfere; balaà r l’ocio, non fidarsi; fis-ciar le recie, essere nominati da qualcuno. L’imprecazione (a la) va-te cià va, per maledire qualcuno mandandolo a subire l’atto sessuale, ora detto per azioni svolte malamente. Una giustificazione religiosa all’inverso c’è invece per gli appellativi con cui ci si rivolge alle persone care: bruto muso per dire bel visino, lazaròn, canapa, fiol de ‘na roja o de ‘na vaca per dire briccone, canaglia in senso benevolo, a scopo protettivo. Altre espressioni cristallizzatesi nel tempo sono il vedà r, ver la strja, cioè la strega, ossia essersela vista brutta; grimolar, da grima altro appellativo per le streghe, che significa tremolare, rabbrividire; così come per incantà r, essere soggiogato, magari dalla bellezza di una giovane donna… Diverse espressioni arrivate a noi grazie anche a dei riti legati alla tradizione, soprattutto quelle legate ai fuochi dell’Epifania (brujoi, bujei, brioli), il detto far on briôlo per dire incendiare, anche in senso figurato; o ancora ciocar, sonar i bandoti, per dire detestare apertamente, deriva dall’usanza di fare chiasso sotto la finestra dei novelli sposi la prima notte di nozze. Dal rito magico di dipingere o sistemare la porta di casa al cambio di stagione l’augurio contro il malocchio fate batar la sòja, o ancora ôltar el butin in t’la cúna, che significa cambiare velocemente idea, deriva dalla paura mai spenta delle streghe, che appunto si credeva cambiassero la posizione dei bimbi mentre dormivano. Ad un’azione magico erotica, come dar, beà r, tor el comìn essere agitati per qualche causa amorosa, e non solo. Parer la luméra invece riferito a chi è pallido e magro da sembrare appunto alla zucca vuota che serviva da lanterna durante la Festa dei Morti (Halloween); parer la betonega, ossia un’erba un tempo molto più presente e usata come medicinale, per quelle che vogliono sempre entrarci ovunque. Sempre in riferimento a caratteristiche delle persone umane essar de soca bona, di razza onesta, e sempre in riferimento al mondo vegetale no’ verghe tute le fassine al côerto cioè non avere tutte le rotelle a posto, essere un po’ bizzarri. Essar pien de cauci (chiodi) per coloro pieni di debiti. Dimandar la sposa per indicare il fidanzamento che un tempo avveniva con il consenso dei genitori.
Di ispirazione chiaramente religiosa invece tutte una serie di esclamazioni modificate come far Quaresima, fare privazioni, deograssia per denotare sazietà . Testa da ravano di colui che non era molto sveglio, di poca importanza, detto anche testa da molon. Molte invece le figure, alcune poi divenute maschere, fino a pochi decenni fa avevano il compito di spaventare i bambini come el vecio Padélon (il vecchio col pentolone) molto più temibile di un qualunque orco; la vecia catà ra, la maga Sabina, la Marantega, la Pagana o la Smara tutte famose rapinatrici di bambini, vi era un corrispettivo maschile el Meneghin un diavoletto burlone. Figure sovrumane sono molto presenti nell’immaginario collettivo: ‘l Padreterno, San Giùan (San Zuane), Santa Lussia, San Peréto, San Rochéto, San Martineto, la Madona de la çeriola, la candelora, tutti legati ad alcune importanti festività . Nomi di fiori di origine religiosa: fior de pasqua (per la violacciocca), fior de la Passion (granadiglia)… L’ultimo tipo di linguaggio, molto più difficile da analizzare, soprattutto ai giorni nostri a causa dell’innalzamento medio del livello di istruzione, è quello pittorico. E’ stata fatta un’analisi su un campionario di alunni di scuole elementari, circa una dozzina nelle zone indicate all’inizio, chiedendo ai bambini di disegnare Dio. Poi ogni alunno avrebbe dovuto spiegare i vari particolari o il motivo per cui erano stati usati determinati colori. Sono emerse alcune interessanti costanti, come il prevalere del colore azzurro (el celeste) che voleva indicare il divino; gli uomini sono raffigurati assieme, o inginocchiati a pregare, o intenti in lavori campestri, resi con i colori fondamentali. L’atteggiamento di Gesù è quello classico del Sacro Cuore, o che risorge, o ancora mentre scende dal cielo. Ma accanto a questi ‘archetipi’ emerge anche un’elaborazione personale, nel momento in cui sono rappresentati i personaggi, o nell’ordine in cui vengono raffigurati. E’ però soprattutto la globalità del linguaggio sacro che emerge su quello grafico, presentando notevoli analogie con quello della parola e del gesto, attraverso i quali si tramanda in ogni struttura della vita, una fisionomia che ancora esiste e resiste all’acculturazione urbana.
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