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Teuta Gwened
Teuta è un clan, una comunità. Chi conosce ed entra a far parte della nostra associazione culturale vuol conoscere meglio sé stesso, le proprie origini, la spiritualità più intima di chi prima di noi ha creato e mantenuto intatto quell’equilibrio e sodalizio imprescindibile che ancora oggi unisce l’uomo e la natura all’universo. Teuta Gwened nasce dal bisogno di sapere, di condividere valori e costumi, ma anche i miti e le leggende, capire l’origine di usanze e riti, nonché il significato più profondo della tradizione veneta. Le nostre origini sono una nebulosa lontana, che si perde nella notte dei tempi. Veneti, celti, Longobardi e Goti. Noi siamo tutto ciò. E ancora oggi chi si sente di appartenere alla Teuta si sente discendente di Vivaldi, Palladio, Goldoni, Canova, Tiziano, Canaletto, Cangrande, Ezzelino... Siamo gli eredi della Serenissima Repubblica, la prima nazione che fondò se stessa sul diritto di ogni uomo a vivere da uomo libero, nel rispetto reciproco fra cittadini e loro istituzioni. Eredi di quel codice di norme e valori etici non scritti, che ancora oggi hanno un valore per noi. Il rispetto fra gli uomini, se pur diversi, il rispetto per la natura e i suoi ritmi, l’amore per la famiglia e verso il prossimo. Tutto questo ancora oggi è tangibile a tutti coloro che vivono e conoscono la terra Veneta. Vogliamo conoscere la storia che ci hanno taciuto nei libri di scuola, le imprese dei nostri eroi medievali, la grandezza della nostra letteratura e del nostro teatro, ancora oggi chiamato volgarmente ‘dialettale’. Vogliamo confrontarci con i nostri fratelli celti atlantici… Con quel mare che anche i nostri avi osavano sfidare. Con quel vento del nord che ancora oggi ci trasporta verso nuove mete da raggiungere. Nuovi sogni per cui lottare. Come il sogno di poter gridare a tutti, sotto il nostro sacro vessillo di San Marco, che siamo nati liberi e fieri, liberi di amare la nostra terra e il nostro popolo, liberi di essere Veneti e di urlarlo al mondo intero, senza più alcun timore. Teuta è il nostro clan, la tribù. Gwened è il nome bretone della città di Vannes, fondata dai Veneti antichi. Il nostro motto è : Untar d’Oaka!, il richiamo per radunare i capifamiglia delle comunità cimbre delle montagne venete, un costume risalente alle fahre longobarde. Significa ‘sotto la quercia’, albero sacro per gli antichi druidi.
La sacralizzazione del territorio

La Terra, le Genti, il Sacro…

Che cosa significa sacralizzazione del territorio, può apparire in un certo qual modo semplice da concepire. Si tratta di una serie di manufatti materiali, connessi alla vita spirituale e quindi religiosa di una comunità più o meno ampia. Ma coglierne i tratti e le più intime sfumature, sia quelle tuttora visibili e tangibili, che quelle sommerse dal tempo e  ancor più dall’odio espresso dal  modello urbano-industriale di sviluppo del territorio, può apparire un compito alquanto gravoso. In questa sede possiamo soltanto sfiorarne la profondità, l’immensa e inestricabile rete che dal passato emerge quasi ad invadere spazi impensabili, oltre che a penetrare nell’intimo individuale e comunitario. Chi ha vissuto in un luogo da sempre, nella sua memoria interiore e visiva, può far risaltare e quindi lasciar scorrere facilmente tutte quelle immagini e situazioni che riguardano lo spirito della propria terra: chiese antiche o recenti, edicole (capitej) poste in ogni angolo di strada, croci innalzate sulle cime di colline o montagne, cimiteri, ma anche processioni, credenze e costumi, storie di miracoli e apparizioni… Ecco cosa significa, per noi, sacralizzazione del territorio, quando la materia si confonde con lo spirito e la terra si confonde con l’uomo, la sua religiosità, il suo voler testimoniare il divino. Ma il sacro della terra può intendersi anche oltre, quale concepimento della vita e della realtà secondo un calendario, secondo azioni quotidiane che un tempo non lontano tingevano ogni cosa dell’esistenza individuale e comunitaria. E forse, oggi, a causare questo degrado e distacco tra noi e la nostra ‘abbandonata’ terra, è questa mancanza del sacro, è l’aver tradito quel ciclo vitale, fatto di stagioni, di riti e di regole; è l’aver dimenticato di esser tutt’uno con la natura, è l’aver sepolto quell’animismo popolare e genuino, ben distante dalla cieca superstizione, ma che avrebbe potuto fissare un equilibrio, tra noi, il divino e la realtà. Ancora, esiste, come già accennato, un ‘Sacro’ antico, in parte sepolto dal tempo, o appena sommerso da un velo superficiale, facile da rimuovere…

E partiremo proprio da questo, accennandovi di culture protostoriche sino all’epoca moderna. Ci inoltreremo poi nella religiosità popolare, posta al di fuori di quella che possiamo chiamare l’ortodossia cattolica ufficiale, in cui si possono scorgere gli echi di un mondo antico e pagano… Un incredibile patrimonio culturale in cui la nostra gente da sempre si rispecchia. Mondo costruito attraverso i secoli, attraverso la storia. Sintesi di ogni profonda valenza e aspirazione di un popolo sono i propri simboli, vogliamo soltanto ricordarne due: quello del ‘Comune’ di Verona (ma anche di Vicenza, Padova… ), ossia la croce; e quindi il simbolo per eccellenza di tutte quelle genti che furono governate dalla Serenissima: il leone alato di San Marco. Entrambi imprescindibili segni di Cristianità e di ataviche dimensioni culturali di quei lontani nostri progenitori, che gli studiosi chiamano indoeuropei.

La “strada della morte”. Tracce antiche di spiritualità

La concezione religiosa dei popoli antichi, prima della romanizzazione, ci  descrive un paesaggio elaborato, nonostante il tentativo di etichettarlo spesso e volentieri come ‘inferiore e barbaro’ di fronte alla civiltà urbana portata dai romani. Reti, Euganei, Veneti e Celti non possedevano dei veri e propri templi, ma avevano dei ‘luoghi’ ritenuti sacri: erano le radure isolate, spesso naturali, dei boschi (nemeton) i ‘templi’ per eccellenza. Ma in realtà tutto il territorio, nelle sue espressioni (fiumi, paludi, boschi, montagne, sorgenti…) era sacro: una simbiosi dettata dalla consapevolezza di appartenere al mondo della natura, vissuta in maniera divinizzata e non certo come qualcosa da sfruttare. Per quanto concerne la strutturazione territoriale antica, possiamo citare le popolazioni dell’età del Bronzo: i loro villaggi erano posti a distanze ben precise, con regolarità l’uno dall’altro, a seconda della grandezza demografica di ciascun villaggio. Questo per meglio utilizzare le risorse del luogo, similmente per certi versi alle tesi recenti di distribuzione nel territorio moderno dei paesi e delle città, ad esempio sul modello del Christaller. Vicino ai villaggi erano poste le necropoli, orientate (come i primi) secondo determinati punti astronomici (solstizio invernale, equinozio primaverile…). Inoltre, la loro posizione non era mai casuale, ma esse si collocavano in quelle che possiamo definire ‘zone di passaggio’, ossia zone di transizione tra terra e palude, tra altura e pianura, tra fiume e riva… materializzazione del significato stesso del rito funerario e della morte, ossia un passaggio tra un mondo, una dimensione ed un altra. E per arrivare a queste antiche aree sepolcrali, bisognava percorre una strada delimitata da alberi e staccionate (ancor oggi le ritroviamo nei cimiteri!), chiamata dagli studiosi ‘la strada della morte’. Una strada sacra, ultimo percorso prima del passaggio rituale alla morte: “Una vera e propria strada, segnava il tragitto che collegava il mondo dei vivi, il villaggio, al mondo dei morti, la necropoli. Un sentiero diritto, diretto a nord-ovest, segnato ai lati da lignee barriere, ad unire due realtà intimamente legate, la vita e la morte. Un mondo di ritualità e credenze, segnato nel significato del suo esser passaggio dalla stessa sua posizione, l’essere al confine, anche nella realtà, tra l’umido, una palude, e il secco, la terra, tra la bassa e l’alta pianura, tra un dirupo e la cima di un’altura… Così si spiega l’incredibile e quanto mai inimmaginabile strutturazione spaziale della cultura del bronzo nell’area veneta, e della Bassa Veronese in particolare… Una civiltà inaspettata a dimostrare nuovamente la ricchezza inestimabile del nostro territorio”. A questo punto del nostro viaggio utile ad illuminarci sulla spiritualità delle  nostre antiche genti, non possiamo non citare l’incredibile testimonianza offertaci dalla ‘motta’ di Veronella Alta. Questa struttura non è certo isolata nel panorama padano-alpino. Tale territorio mostra infatti strutture architettoniche antiche orientate astronomicamente. In Valle d’Aosta, nell’area megalitica di Saint Martin de Corleans (sito della leggendaria Cordelia dei Salassi), esiste un luogo del tutto simile a Veronella Alta, orientata sulla  levata del sole a Beltane (Equinozio primaverile) e a Lammas (Solstizio d’Estate). Ancora nel Trevigiano o nel Bellunese, probabilmente Veneti (ma ciò vale anche per i Celti) si riscontrano simili strutture (motte e castellieri), orientate secondo la levata del sole nei giorni di Imbolc (l’odierna festa della Candelora) e Samain (il giorno dedicato al culto dei defunti dalla religione Cristiana). Dunque, come già detto, i popoli antichi dell’Europa centrale, settentrionale e occidentale, non avevano col territorio un rapporto ‘di conquista’ e sfruttamento, ma piuttosto con esso instauravano uno stretto legame che arrivava all’identificazione simbolica e sacrale. La terra era la tribù, nella terra si trovavano le origini ancestrali della comunità, la terra ospitava tutti gli elementi di sacralità di cui la tribù faceva parte. La Terra era la Madre dispensatrice feconda della vita e della ricchezza. In ogni luogo vi era un’entità sacra ed essa stessa costituiva una porzione di divinità che andava rispettata. Il paesaggio era cioè ‘contenitore di sacralità’ ma anche esso stesso, ‘elemento e soggetto di sacralità’. Ogni intervento dunque avveniva in relazione a quanto sopra, e tale tendenza si è conservata anche in quella Civiltà della Terra sopravvissuta sino a qualche decennio fa. Esempi di tale atteggiamento, e solo da pochi anni scoperti e studiati, sono gli allineamenti, schemi di sacralizzazione a livello territoriale delle antiche civiltà europee, che noi possiamo soltanto cogliere in quel timido riaffiorare di antiche vestigia. Ovviamente le regioni più integre sono quelle meno interessate dalla pianificazione romana: dunque le Alpi, le Isole Britanniche, qualche zona periferica ed il nostro Veneto, regione quest’ultima che riuscì a mantenere una propria identità grazie al contesto storico che la portarono a divenire parte dell’Impero. Due sono le tipologie riscontrabili: gli orientamenti astrali, di cui sopra con Veronella Alta; gli allineamenti appunto (in inglese leys) o geogeometrie. Anche nel Veneto possiamo individuare dunque, un’incredibile reticolo geometrico su cui furono orientate città e villaggi. Si trattava di un fitto sistema di allineamenti di elementi naturali e artificiali (molti toponimi odierni ne testimoniano l’antica funzione!). Allineamenti partivano da   Altino, presso Venezia, e si collegavano con i passi alpini (Brennero, Sempione, Resia, Tarvisio…), con cime di colline e montagne, e lungo tali assi sorgevano villaggi e città.

Vicenza, Verona, Padova, Treviso, Este, Cittadella, Bassano, Asolo, la zona compresa tra Verona e Vicenza con orientamento imperniato radicalmente  sulla Cima Marana e molte altre ancora, oltre alla comprovata struttura orientata astronomicamente, si collocavano lungo direttrici stabilite,  allineamenti ripresi anche durante l’Impero romano. A comprovare quest’idea di  sacralizzazione del territorio come patrimonio genetico dei popoli europei, esistono testimonianze medievali, in cui chiese, cattedrali e altri monumenti erano disposti secondo disegni geometrici ben definiti. Ma di tutto questo parleremo in un’altra occasione.

L’ancestrale culto di Monte Sommano

Il culto della Madonna di Monte Summano (Vicenza), pare sia il più antico di tutte le Alpi venete, ed diretto continuatore di culti pagani addirittura preromani. Il nome deriva infatti da una divinità pagana, Plutone dio degli Inferi, ossia il Summum Manium (il sommo dei Mani). Sarà San Prosdocimo, discepolo di  Pietro, che dopo l’evangelizzazione del padovano nel I secolo d.C., arriverà anche nel vicentino, distruggendo il tempietto pagano e costruendo una chiesa ‘ad onor et laude’ della gloriosa di Dio generatrice Vergine Maria. Per questo la chiesa era detta della ‘Madonna di S. Prosdocimo’, e solo poi di ‘Monte Summano’, a cui seguirà l’appellativo Ausiliatrice’ per la fama miracolosa poi pervenutale. La sua storia non è unica. Presso Marano, nella media Lessinia Occidentale, esiste una chiesa dedicata a Santa Maria della Valverde, detta dagli anziani locali Santa Maria Manerba o Santa Minerba. La chiesa è posizionata in una località detta ‘el Castelon’, dove è stata documentata la presenza di un castelliere protostorico oltre che l’esistenza di un tempietto dedicato alla dea Minerva. Tornando a Monte Summano, dobbiamo dire che il culto è particolarmente vivo in Val d’Alpone (San Giovanni Ilarione), ed è documentato sin dal 1552. Assieme al culto di San Leonardo ‘il Limosino’ (tra l’altro la sua presenza è documentata anche a Vestenanova), il culto del Monte Sommano ci descrive un antico legame, certamente da riferire alle popolazioni Cimbre del vicentino e del veronese (il culto sembra seguire le antiche vie di migrazione tedesche dall’alto vicentino attraverso l’alta Val d’Alpone e quindi la Lessinia centro-occidentale). Ma molto probabilmente esiste anche un legame ancor più radicato nel passato, un’atavica religiosità che affonda le proprie radici nei popoli protostorici.

Religiosità cimbra in Val d’Alpone: Santa Margherita

Santa Margherita di Antiochia di Pisidia (Anatolia orientale), col nome di  Marina al tempo dell’imperatore Diocleziano (284 – 305 d.C.), certamente appartiene all’immaginario popolare, e le diffuse rappresentazioni nel teatro popolare ne sono testimoni. La cosa che colpisce di questo culto è la coincidenza territoriale fra culto di Santa Margherita e territori di insediamenti cimbri nella Lessinia (ampiamente intesa); l’assenza del culto di Santa Margherita in Lessinia prima degli insediamenti cimbri; la continuità del suo culto coi territori di provenienza dei cimbri. Santa Margherita la ritroviamo a Durlo, a Campofontana (ma quello principale è San Giorgio: comunque, entrambi i santi, uccidono il drago, simbolo del  male), Boscochiesanuova, Rovegliana, Posina, Rotzo e Roncà. Un’antica credenza accomuna queste ultime due comunità: “il suono della sua campana quando sorgeva un temporale metteva in fuga i demoni devastatori che si riteneva abitassero nei dintorni della collina dell’Alteburg. Identica funzione esercita la campana della vecchia chiesa di Santa Margherita dei Lessini: questo legame con Rotzo fa pensare che si tratti di comunità staccatesi da Rotzo, le quali con il culto di santa Margherita si trasferirono sui monti del vicentino e riconoscono antichi legami con quella comunità di origine” [A. Benetti, Santa Margherita dei Lessini…].

La più antica datazione documentabile risale al 1534 circa, anche se pare che già prima del 1300 i boscaioli, i pastori e i carbonai cimbri ne avessero costruito una in legno. Oggi la chiesa è stata restaurata e ne è sorta una nuova. Santa Margherita appare anche in questa sede legata al culto di San Giorgio.  

Associazione Culturale TEUTA GWENED - San Bonifacio (Verona) - C.F. 92019330239